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Bambini Abbandonati Orfanotrofi. Umiliati e offesi.

Foto JOEL ROBINE/Getty

Figli dello Stato. Figli di nessuno. I minori, orfani o allontanati dai genitori, parcheggiati nelle case famiglia e nelle comunità di tutta Italia sono circa 30-35mila (anche se dati certi non ne esistono). Bambini alle prese con la burocrazia già a uno, due, tre, quattro anni. Entrano in una struttura, in attesa di tornare a casa o essere adottati, e non sanno quando ne usciranno. Incastrati in un mondo nebuloso fatto di cooperative, istituzioni, servizi sociali e tribunali in cui circolano fiumi di denaro. Un miliardo di euro l’anno, o forse più. Delle strutture che li ospitano non si sa neanche quante siano – il Garante per l’infanzia ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale solo a novembre 2015. Né si sa quanto costino davvero alle casse pubbliche, visto che le rette da pagare variano dai 40 ai 400 euro al giorno. Erogate finché il minore resta tra le mura della comunità. E un bambino adottato in più, significa sempre una retta in meno.

La media di permanenza nelle strutture è di circa tre anni. Anche gli affidamenti temporanei, che dovrebbero durare al massimo due anni, spesso vengono rinnovati diventando sine die. In attesa di un decreto del tribunale dei minorenni che, a volte, non arriverà mai. Tant’è che su diecimila coppie che chiedono di adottare un bambino italiano, solo una su dieci alla fine ci riesce (leggi l'articolo sul disastro delle adozioni in Italia)

Business case famiglia. Niente controlli, niente trasparenza. Si spendono fino a 150 mila euro l'anno a bambino

Quelli che chiamavamo orfanotrofi, con i letti e castello e le camerate comuni, in teoria dal 2001 non dovrebbero esistere più. Ora si parla di case famiglia, dove una coppia ospita un numero ridotto di minori cercando di riproporre la formula familiare. O di comunità, educative o terapeutiche, gestite da addetti ai lavori. Ma in questo caso siamo alla vecchia formula che doveva scomparire e che invece rimane: è cambiato solo il nome.

La retta per ogni bambino ospitato viene pagata dai Comuni. Ma un tariffario nazionale di riferimento non esiste. Ognuno fa a modo suo, come se si trattasse di un mercato qualunque. Le rette più basse si pagano al Sud, dove si toccano anche i 40 euro al giorno. Quelle più alte vengono richieste nelle comunità terapeutiche, giustificate anche dalla presenza di personale più qualificato, oltre che di psicologi e psichiatri incaricati dalle Asl. Ma anche qui le escursioni di prezzo sono enormi: da 70 fino a oltre 400 euro. Per un totale di 150mila euro all’anno per un solo bambino. E i Comuni pagano. Quando non se lo possono più permettere, le strutture chiudono e i bambini vengono parcheggiati altrove, dove c’è qualcun altro disposto a pagare. Come è successo alla comunità “Hansel e Gretel” di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno.

La retta per ogni bambino ospitato viene pagata dai Comuni. Ma un tariffario nazionale di riferimento non esiste. Ognuno fa a modo suo, come se si trattasse di un mercato qualunque. Si va dai 40 fino ai 400 euro. Per un totale di 150mila euro all’anno per un solo minore

«Spesso le somme richieste non sono giustificate», dice Cristina Franceschini, avvocato e presidente della onlus “Finalmente liberi”. «Sono somme che i comuni potrebbero versare alle famiglie in difficoltà per attuare un progetto alternativo ed evitare che i figli vengano allontanati». Il collocamento del bambino nella comunità deve essere l’ultima soluzione. Lo dice anche il garante per l’infanzia. Ma sempre più spesso diventa la prassi.

Intanto, le comunità proliferano e le rette pure. Una comunità in provincia di Treviso per tre anni ha ricevuto 400 euro al giorno per minore. Solo dopo le interrogazioni presentate in consiglio regionale, è arrivata la delibera che ha abbassato la retta a 200 euro. «Non si sa quindi perché prima si pagasse il doppio», dice l’avvocato. Una cifra simile, poco meno inferiore ai 400 euro (395 euro e 20 centesimi), si è raggiunta in un’altra comunità umbra. Per una spesa complessiva annua di oltre 137mila euro per assistere un solo minore (guarda i documenti).

Soldi che escono dalle casse pubbliche ed entrano in quelle di case famiglia e comunità. Spesso in assenza di controlli e senza alcuna trasparenza. I Comuni autorizzano le comunità ad aprire le porte ai bambini solo sulla base di autocertificazioni fornite dalle strutture stesse. Che stabiliscono anche le rette da ricevere, in base agli affitti da pagare e al numero di educatori assunti. Gli accreditamenti ufficiali vengono regolati dalle leggi regionali, e in molti casi arrivano solo in un secondo momento. Intanto, si comincia a lavorare. C’è sempre qualche bambino da sistemare. «Che sia una casa famiglia o una comunità non importa, se c’è urgenza non si fa troppa differenza», raccontano gli operatori.

Ogni Regione stabilisce poi le modalità di controllo. Ci sono quelle che fanno ispezioni puntuali, altre che – anche per mancanza di fondi – non le fanno quasi mai. Lo stesso garante per l’infanzia ha parlato di «criticità» sul «tema dei controlli». Finché non arrivano le segnalazioni e le indagini della magistratura. L’ultimo caso è esploso a Licata, Agrigento. In una comunità per minori con disabilità psichiche, i ragazzini sono stati trovati legati con catene e scotch, costretti addirittura a mangiare i propri escrementi. Ma anche a Foggia, a luglio 2015, sono state arrestate le educatrici di una comunità, accusate di maltrattamenti sui minori. E a giugno 2015 si è concluso il processo che ha coinvolto il Forteto di Vicchio del Mugello, con la condanna in primo grado del fondatore e di altre 15 persone per maltrattamenti e abusi sessuali. La comunità, in questo caso, rifiutava le rette comunali: un gesto di apparente solidarietà, che negli anni ha tenuto lontani anche i controlli.

Anche perché, nella maggior parte dei casi non esistono rendicontazioni dettagliate delle spese sostenute dalle strutture. Non si sa quanta parte della retta serva per il sostegno del minore, e quanta liquidità resti invece nelle tasche della comunità. «Essendo per lo più cooperative e onlus, presentano bilanci stringati con pochissime voci, senza entrare nel dettaglio», dice Franceschini. Lo conferma anche un operatore di una struttura milanese: «Il Comune non ci ha mai chiesto una rendicontazione delle spese. Pubblichiamo annualmente il nostro bilancio, ma più che altro per dare conto ai donatori privati che ci sostengono». Tanto che ci sono casi limite in cui il Comune paga anche per i giorni in cui il bambino non è in comunità. «Per un minore che ho seguito, venivano spesi 310 euro al giorno», racconta l’avvocato Franceschini. «Nei due giorni a settimana in cui il ragazzo tornava a casa dai genitori, il Comune pagava comunque 290 euro».

Nella maggior parte dei casi non esistono rendicontazioni dettagliate delle spese sostenute. Non si sa quanta parte della retta serva per il sostegno del minore, e quanta liquidità resti invece nelle tasche della struttura

I giudici minorili: un anno per prendere una decisione, mentre il bambino rimane chiuso in una struttura

Ma le maglie dei controlli non sono larghe solo nella gestione economica delle strutture. Bisogna guardare anche i nomi coinvolti. La onlus Finalmente Liberi nell’estate del 2015 ha presentato un dossier sulla incompatibilità di ben 211 giudici onorari minorili che ogni giorno nei tribunali decidono su adozioni e affidamenti a case famiglia, ma che sono anche fondatori, azionisti, consiglieri delle strutture per minori (in contrasto con quanto previsto da una circolare del 2010 del Consiglio superiore della magistratura) o anche solo dipendenti. La domanda che si sono posti è lecita: come fanno a decidere se tenere o meno i minori nelle case famiglia, se hanno interessi in queste stesse strutture? Ogni bambino in meno è una retta in meno, si diceva.

Alla fine il Csm si è mosso: con una nuova circolare sull’affidamento degli incarichi dei giudici onorari minorili, ha stabilito che non potranno avere non solo cariche rappresentative nelle strutture comunitarie per i minori ma neanche lavorarvi a vario titolo. Né loro, né i familiari più vicini. Ma i nuovi criteri saranno applicati nel giro di nomine per il triennio 2017-2020. Quindi, per il momento, chi aveva interessi da una e dall’altra parte potrà continuare a stare con un piede in una scarpa e con un piede in un’altra. Ma con l’apertura delle nuove candidature tra Brescia e Genova, qualcuno si sta già tirando indietro.

Perché molto spesso l’ingranaggio che fa soggiornare i bambini nelle comunità oltre i tempi dovuti si ferma proprio all’altezza dei tribunali dei minorenni. Gli assistenti sociali lavorano tutti sull’onda delle emergenze, visto che una sola persona si trova aanche a seguire da 80 a 100 minori. Così «passano mesi in attesa di una risposta da parte dei tribunali per capire cosa ne sarà di un bambino», racconta un operatore. «Ci è capitato il caso di un minore che non vedeva più i genitori di origine da un pezzo. Abbiamo aspettato un anno per l’arrivo del decreto che ha dato via libera all’adozione. Nel frattempo un bambino di sette anni ha passato un altro anno della sua vita in una casa famiglia. Con tutto quello che questo comporta».

“Ci è capitato il caso di un minore che non vedeva più i genitori di origine da un pezzo. Abbiamo aspettato un anno per l’arrivo del decreto che ha dato via libera all’adozione. Nel frattempo un bambino di sette anni ha passato un altro anno della sua vita in una casa famiglia”

I dati: tra strutture e affido non sappiamo quanti sono gli orfani

Del resto, in Italia, non si sa neanche con precisione quante siano le strutture accreditate e quanti minori ospitino. Un database comune non esiste. Per legge, ogni sei mesi le comunità dovrebbero comunicare alle procure presso i tribunali dei minorenni il numero di bambini presenti nelle strutture. Ma non tutti lo fanno e non si è mai arrivati a una sintesi nazionale. Si è scomodato più volte anche il Comitato dell’Onu sui diritti dell’infanzia per segnalare all’Italia questa mancanza.

Persino i dati di Procure e Regioni non coincidono. Solo a novembre 2015, sull’onda dell’interesse mediatico intorno agli affidamenti minorili e dopo la circolare del Csm, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale. Sono stati chiesti alle 29 procure minorili i dati sul numero di minori collocati in comunità. E «sebbene i dati avuti non arrivino ancora al dettaglio», scrive il garante Vincenzo Spadafora, «ora sappiamo che al 31 dicembre 2014 i minorenni a vario titolo collocati nelle comunità erano 19mila». Ma da questa cifra mancano i dati dei ragazzi collocati nelle famiglie affidatarie, che in base ai report passati erano più o meno lo stesso numero di quelli inseriti nelle comunità. Le strutture conteggiate sono 3.192, ma senza una differenziazione per tipologia. Non solo: in alcune regioni le autorità amministrative e sanitarie che autorizzano le aperture delle comunità per i minori non ne danno comunicazione alle procure. Quindi i dati risultano incompleti. Servirebbe un database comune, scrive il garante, ma «si prospettano tempi lunghi».

Gli altri numeri a disposizione sono quelli del ministero del Lavoro e delle politiche sociali: i dati relativi al 2010 parlano della presenza di circa 40mila minori fuori famiglia; l’aggiornamento del 2012 registra 29mila bambini nelle strutture, ma nel conteggio generale mancano Lazio, Abruzzo, Basilicata e Calabria e non viene considerato il flusso di altri 10mila bambini che si sono avvicendati nel corso dell’anno. Per ultimo, c’è anche l’indagine Istat sui presidii socio-assistenziali e socio-sanitari, anche questa relativa al 2012, che conteggia 11.571 strutture con circa 373mila posti letto, di cui il 38% occupati da minori. Risultato: in mezzo a tanti conteggi approssimativi, nessuno sa quanti siano davvero i bambini in mano alle strutture per minori oggi in Italia. Una merce preziosa che conviene tenere nell’ombra. Mentre le richieste di adozioni nazionali calano di anno in anno.

inserito da Domenico Marigliano Articolo preso dalla fonte: http://www.linkiesta.it

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